Stornelli a dispetto
Ambrogio Sparagna
“Roma Caput Mundi”, ed ancora, o se preferite, “Tutte le strade portano a Roma”. Insomma, a prescindere da come la si voglia coniugare, anche questo nuovo progetto del M° Ambrogio Sparagna è un viaggio in itinere; un viaggio che continua incurante del tempo e che, anzi, ha nel tempo il suo ideale compagno di viaggio.
Per la IX Edizione dell’Ottobrata Romana, all’Auditorium Parco della Musica, Ambrogio ha “convocato” quest’anno due delle voci che, forse, meglio di altre hanno saputo interpretare lo spirito “testaccino” della romanità più autentica: Luca Barbarossa e Giorgio Onorato. Luca Barbarossa, e la sua chitarra, ci ha accompagnato attraverso i “classici” della canzone romana, la sua voce ed, in questo caso, il suo non celato accento ci hanno fatto rivivere quegli scorci, ormai da cartolina ingiallita, di una Roma che per i meno giovani affiora ancora, con vivida chiarezza, fra i ricordi mischiati fra i calzoncini corti ed un pallone preso a calci nella canicola estiva. Luca ci ha proposto anche due suoi inediti, sempre nel solco della tradizione popolare, e che saranno inclusi nel suo prossimo album: un monologo, ed una sorta di poesia. Entrambi i brani hanno tagliato l’atmosfera della Sala Sinopoli con vibrante schiettezza cogliendo quasi di sorpresa il numerosissimo pubblico convenuto.
Giorgio Onorato non ha certo bisogno di presentazioni dall’alto dei suo 89 anni e dei dieci, e più lustri, di carriera musicale. La sua voce è la voce di quella Roma popolare e popolana; le sue interpretazioni cristallizzano il tempo, fermano le lancette, riformattano la realtà e la ricompongono con tinte pastello, una sorta di pittore che, attraverso i suoi acquerelli, impressiona il cartoncino con una realtà sfumata, impalpabile, eterea quanto vivida. Commovente il fuori programma che ci ha regalato Giorgio: un “Nessun Dorma”, la notissima aria dall’atto finale della Turandot di Giacomo Puccini, reinterpretata, per l’occasione, con il suo stile inconfondibile. Quasi due ore di concerto dove sono state rivisitate le canzoni della tradizione popolare romana, praticamente dalle origini, dagli albori, sino a giungere ai giorni nostri. Suoni “veri” che sostengono canzoni “vere”, profonde e radicate come solo le tradizioni più autentiche possono, e sanno, esserlo. Un’antologia da sfogliare, da assaporare lentamente, quasi come si stesse osservando il sonnacchioso incedere del “biondo” Tevere; un album dei ricordi riletto attraverso la lente d’ingrandimento dell’organetto di Sparagna supportato dai solisti dell’Orchestra Popolare Italia (OPI).
Clara Graziano che con i suoi organetti fa da contraltare ad Ambrogio; Marco Tomassi e Marco Iamele con le loro zampogne a richiamare i sapori, e gli odori della terra; l’eclettico Erasmo Treglia con la sua pletora di strumenti gestiti come fosse un “menestrello”; la voce, calda, profonda, potente e possente di Raffaello Simeoni a stagliarsi, ed inerpicarsi, sino quasi a varcare i confini fisici della sala; la chitarra di Cristiano Califano “accarezzata” con tale maestria sino a farle emettere note “toccantemente” suadenti; i tamburelli, addomesticati dalla neomamma Valentina Ferraiuolo, a scandire il tempo, quasi un “contapassi” per questo viaggio che passa attraverso il contrabbasso di Diego Micheli che riesce a donare profondità e spazio, quasi ampliando il perimetro della sala, sino ad arrivare ad Ottavio Saviano che con le sue percussioni riesce a ricreare quello spirito si spensierata allegria che popola l’allegoria stessa della vita e dei bei tempi andati
Il Coro Popolare, come di consueto diretto dalla precisa Anna Rita Colaianni, suggeriva quella “voce” popolana, dando corpo, forma e sostanza a quelle figure retoriche ed immaginifiche che costellano il firmamento popolare.
Ambrogio Sparagna, in conclusione, continua il suo viaggio attraverso le tradizioni popolari; il suo è un vagabondare, ma si badi bene, mai senza meta. Un viaggio ininterrotto alla ricerca, ed alla riscoperta, di quello che eravamo per meglio capire chi siamo e come mai siamo ciò che siamo diventati. Una sorta di pellegrinaggio apocrifo a ritroso nel tempo, in punta di piedi, con rispetto e deferenza, un volo radente su una realtà storica fin troppo delicata per poter essere manipolata con imprudenza. Questo, a mio avviso, la ragione del successo del M° Ambrogio Sparagna, l’umiltà nel saper ascoltare quelle storie che appartengono al nostro tessuto culturale, che sono sia la trama che l’ordito di una società che si è evoluta, eretta, costruita ed innalzata, ma che tendenzialmente vira e prova a dimenticare, a mettere in ombra, in secondo piano, a sfocare, le proprie origini più autentiche.
Michela Cossidente.
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